Lo sapevo.
Ci speravo e me la sentivo che avrebbe vinto lei, la 77esima edizione del Premio Strega 2023: Ada D’Adamo col suo Come d’aria, il racconto autobiografico di un calvario, di un amore fatto di rinunce e resilienza.
Scritto durante la grave malattia di Ada, Come d’Aria è una sorta di diario, la voce di una madre che combatte contro un tumore e racconta alla figlia disabile la loro storia.
Ada d’Adamo è nata nel 1967 a Ortona. Ha vissuto e lavorato a Roma, dove si è diplomata all’Accademia Nazionale di Danza e laureata in Discipline dello Spettacolo. La sua principale passione è la danza, dove impara ad essere consapevole del suo corpo, a rispettarlo, a tenerlo sempre in allenamento, a saperlo controllare. Le sue prime prove di scrittura sono saggi sulla danza e il teatro. Il suo debutto nella narrativa avviene, invece, proprio con questo romanzo autobiografico basato sulla sua personale, particolarissima e straziante esperienza di vita. A rendere ancora più straordinario il suo successo, anche il fatto che lei sia stata pubblicata dalla casa editrice Elliot – non tra le maggiori -, e che si possa considerare quasi una scrittrice esordiente. Il suo, però, è già un linguaggio sapiente, esatto, scevro da sconti o voli pindarici. È il linguaggio della verità.
Ada lotta tutta la vita. Prima per un figlio che non arriva. Poi, nel 2004 subisce un aborto terapeutico. Quando nel 2005 riesce finalmente a diventare madre, la figlia Daria è gravemente malata: ha una rara malformazione cerebrale, l’oloprosencefalia, che comporta gravi difficoltà comunicative e motorie. In una parola: che le impedisce di vivere. Daria soffre di crisi così violente che la madre deve legarla a sé perché non si faccia male.
Ada inizia a fare i conti con una realtà inaspettata e logorante, e perfino col rifiuto che prova nei confronti della figlia e della situazione; poi, lentamente arriva l’accettazione, ma a quel punto si guarda intorno e realizza di trovarsi immersa in una solitudine agghiacciante (anche il marito è per forza di cose assente: deve stare per lo più a Napoli per lavoro, dove tra l’altro vivono i figli di un precedente matrimonio). Ada è costretta a imparare quasi da sola a relazionarsi con un corpo piccolo e fragile, tormentato da continui attacchi epilettici, disfagia, reflusso, secrezioni nasali, disturbi del sonno, crisi di pianto prolungate. Deve imparare tutte le procedure per trattarlo e curarlo, come può.
Ingiustizia?
Destino terribile?
Ada non smetterà mai di fare presente che se l’avesse saputo non avrebbe mai messo al mondo una figlia per vederla soffrire così ineluttabilmente. Nonostante tutto l’amore. Nonostante poi Daria sia diventata la sua ragione di vita.
La sua è una grande Onestà umana, oltre che letteraria.
Ada chiama le cose col loro nome, per come sono, senza enfasi eccessiva e senza grandi drammi. Vince su tutto la sua autenticità, il suo uso del linguaggio prezioso e insieme semplice: la sua capacità di trasmettere con chiarezza immagini e concetti diretti e comprensibili, anche quando sceglie di scendere nei particolari medici.
Per la critica lei è vincente perché “punta sul vuoto di senso, sullo smascherare l’inautentico.” Il suo libro spicca tra gli altri candidati per la lealtà e l’onestà dei sentimenti descritti, spesso in mezzo a tanta enfasi, giochi letterari, prove d’autore, idealismi.
Proseguendo col suo racconto, Ada si rende conto immediatamente che essere madre di una figlia disabile implica anche uno scontro continuo con l’indifferenza, con le lungaggini della burocrazia e con l’incomprensione della gente. Per reagire alla solitudine, alla disperazione e alla frustrazione, decide di mettersi in contatto con altre famiglie che vivono una condizione analoga alla sua: grazie alla condivisione, troverà il supporto e la comprensione che le mancavano.
Costruisce man mano con la figlia un rapporto di simbiosi e intuizione profonda, che va al di là delle parole non dette, per seguire le vie del tatto, della tenerezza, del cuore, di un amore immenso anche se tormentato dalle mille preoccupazioni del quotidiano. Daria sembra calmarsi solo quando la madre la tiene in braccio e fa aderire il corpo della bimba al suo, il più possibile.
A scuola, peraltro, Daria è accolta bene dagli altri bambini che non si pongono domande ma si perdono nei suoi rari sorrisi, le fanno dono di fiori e poesie, – in parte riportate da Ada tra un capitolo e l’altro, come un momento di respiro e perfino di gioia in mezzo a tanto dolore. – I compagni percepiscono Daria come straordinaria, senza per questo dare un’accezione negativa al termine. Tutti i giorni Ada porta la figlia a scuola di fronte a casa, e poi la guarda dalla finestra del suo appartamento prendere parte alle lezioni come può. Oppure la immagina solo, ma sempre con una profonda tenerezza e col sollievo del saperla amata dai compagni, da quei bambini tanto più semplici degli adulti che l’hanno accolta con spontaneità e senza difficoltà.
Quando, finalmente, la vita di madre e figlia inizia a conquistare un equilibrio, ad Ada viene diagnosticato un cancro: un tipo di tumore al seno dei più aggressivi. Inizia così per lei un nuovo calvario: tra terapia anti ormonale e periodiche sedute di chemio e di radio, il suo corpo cambia, si indebolisce; per la prima volta perde il controllo di sé: anche lei si ritrova ad avere a che fare con un organismo fragile e provato, non più prevedibile, e ad aver bisogno di una continua assistenza, proprio come la figlia.
Ada considera il suo cancro, e la successiva condanna a morte, come «l’espressione estrema di una infelicità preesistente», mai vissuta veramente. «Ecco perché quando mi sono ammalata, non mi sono stupita più di tanto. Quella ferita, quella lesione sulla schiena, quel nodulo al seno erano lì da tanto tempo. Questo tumore sono io, è la mia identità. In esso mi riconosco e, finalmente, vivo».
Secondo Ada, che è stata a lungo danzatrice, è nel corpo che si annida la memoria di ciascuno di noi, il ricordo di segni, ferite, cicatrici, malattie. Attraverso la figlia Daria, Ada sperimenta per la prima volta un processo di identificazione con il corpo di un’altra persona, della figlia, nella fattispecie: «Quando hai un figlio disabile cammini al posto suo, vedi al posto suo, prendi l’ascensore perché lui non può fare le scale, guidi la macchina perché lui non può salire sull’autobus. Diventi le sue mani e i suoi occhi, le sue gambe e la sua bocca. Ti sostituisci al suo cervello. E a poco a poco, per gli altri, finisci con l’essere un po’ disabile pure tu: un disabile per procura».
Durante le terapie, il cancro e le cure la portano alla perdita parziale della memoria, della vista, dei capelli, delle forze, e si sente ancora più vicina alla figlia: «Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria…».
Chissà se sarebbe stata almeno sollevata un po’ da questa vittoria, se per qualche attimo sarebbe stata felice?
A ritirare il premio Strega è il marito Alfredo Favi che, al colmo della commozione, è riuscito a dire: “un premio inaspettato e meritato” e a ringraziare “tutti quelli che hanno creduto in questo libro” rifiutato da molti editori!
Ada è priva di fede. Una parte di me però spera che ci sia un mondo aldilà, oltre a questo, dove lei sia finalmente in pace. E che ci stia guardando, ora. È morta un mese dopo la sua candidatura al premio. Di lei resterà questa straordinaria e particolarissima testimonianza. Grazie Ada!