La ciociara

Era da un po’ che non leggevo un libro che mi desse i brividi! Era da un po’ che non leggevo un libro che mi facesse venire l’acquolina in bocca, la voglia di divorarlo e contemporaneamente di centellinarlo perché non finisse troppo presto! La Ciociara di Alberto Moravia l’ho letto da ragazzina, credo in terza liceo, spinta dalla prof d’italiano, la mitica prof. Ornella Bandini a cui devo tantissimo! Tant’è che, comunque, La Ciociara mi era piaciuto, ma non avevo ancora gli strumenti per gustarlo fino in fondo.

Col tempo e il trasloco ho anche perso il libro, ma poco fa l’ho ritrovato in un banchetto dell’usato: solo due euro e sembra nuovo! Cosa farei io senza i mercatini dell’usato, per i libri, non lo so! Perché a me piace andare in biblioteca, ma i libri, quelli belli o i grandi classici, preferisco averli, e cartacei! Anche se poi in casa non so più dove metterli!… Con buona pace di mia sorella che ha dovuto comprare appositamente una libreria da mettere nella sua camera per tenere i miei libri! E già non basta più…

Oggi comunque, trent’anni dopo, penso di aver fatto un percorso che mi ha portata a comprendere e amare profondamente La Ciociara, per com’è scritto, per come sono costruiti i personaggi, la trama, tutto. E amo Moravia, anzi, lo venero proprio! La sua è una testimonianza dura, cruda e disincantata di quello che è stato l’ultimo anno della seconda guerra mondiale, eppure riesce anche, all’improvviso, a fornire delle immagini di tenerezza che commuovono. Prima tra tutte quelle di una madre vedova, Cesira, – per l’appunto la Ciociara del titolo, (perché, anche se vive a Roma dove continua a gestire il negozio del marito, è cresciuta nelle campagne della Ciociaria), che è pronta a qualunque cosa pur di proteggere la figlia Rosetta, e quella di una figlia che ama profondamente la madre in cui ripone una fiducia cieca, ingenua, disarmante. E poi è bellissima la figura di Michele, lo studioso e idealista figlio dei contadini rifugiati nelle montagne, dove anche Cesira e Rosetta hanno trovato a lungo protezione in un’umile baracca di fango e paglia, mangiando pane (poco e quando c’è) e cipolle, e rovesciandosi in testa un catino di acqua gelida tutte le mattine (poca, e quando c’è) per lavarsi. Michele diventa via via una figura centrale nel racconto: figlio, fratello, padre, marito, per le due donne, le prende per mano, le guida verso il giusto e il bello della vita, sempre senza una sbavatura, una parola o un gesto di troppo, fino alla fine. Una fine eroica e insieme silenziosa.

Per inciso, invece, nel famoso film omonimo prodotto da Carlo Ponti e diretto da Vittorio De Sica, con una meravigliosa Sophia Loren nei panni della Ciociara, (ruolo che, tra l’altro, le è valso il prestigioso Oscar come miglior attrice protagonista), Cesira finirà per innamorarsi di Michele (nientemeno che Jean Paul Belmondo). La riscrittura del testo di Moravia da parte di De Sica e Zavattini è, infatti, piuttosto romanzata per motivi cinematografici, e talvolta rovescia il senso degli episodi o degli incontri tra i personaggi.

Tutto ciò, mentre comunque la guerra impazza, c’è la carestia, e gli uomini in genere sono induriti e pronti a qualunque cosa pur di sopravvivere. I prezzi dei borsaneristi sono sempre più elevati, e un pezzo di pecorino o poche uova varranno più dell’oro, costringendo Cesira e altri come lei, a dilapidare i risparmi di una vita. Tanti, troppi disonesti hanno imparato a speculare sulla fame della povera gente e sulle ristrettezze estreme causate della guerra in genere. Nonostante tutto, la diciottenne Rosetta non perde la sua fede, né il carattere puro e ingenuo, fino a quando, proprio lungo la strada per tornare a casa subito dopo la “liberazione”, verrà stuprata in una chiesa da un branco di soldati marocchini, e resterà scioccata e alterata, nel carattere, per un bel po’.

Ecco, il finale mi ha lasciata perplessa, a bocca asciutta e con quella voglia di averne ancora che ti può lasciare una piccola coppa di gelato, squisita ma non sufficiente per una fame grande, per una premessa deliziosa. E invece Moravia lo fa apposta. Ci lascia con la voglia di saperne di più. Con un finale forse consolatorio ma dubbio. Un finale aperto a un seguito di difficoltà e dolore, perché presto si comprende che la vita non sarà rosea come ci si immaginava, dopo la liberazione. Ma anche con un finale aperto alla speranza che, sottile filo conduttore, non manca mai durante tutto il racconto, per addolcire la storia e renderla più semplice e comprensibile. Per tutti.

Come a tutti consiglio, di cuore, questo libro. Per crescere e capire un po’ di più la seconda guerra. E l’umanità in genere.

Un abbraccio, Greta

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