Miracoli dal cielo – Quando la gente può essere talmente ottusa da prendersela perfino con una bambina

Domani sera, su Rai Movie, alle 21:10, andrà in onda il toccante film Miracoli dal cielo.

Ebbene sì, ho voluto modificare il titolo di questo articolo, tratto dal libro poi diventato film fedelissimo del 2016 Miracoli dal cielo, perché il messaggio vero, per me, è un altro. È che a volte puoi stare sott’acqua e rischiare di annegare e aver bisogno anche solo di una carezza ma c’è chi, bontà sua, pensa bene di metterti una mano sulla testa e buttarti ancora più a fondo. Così, per sport, perché certa gente prima di parlare non pensa, dà semplicemente aria alla bocca, perché buttare giù gli altri, forse, qualche volta significa sentirci più su noi, per un insano, strano meccanismo. 

Per non parlare di certi medici e certa medicina che, finché la diagnosi di un malessere non è chiara e comprovata, si dimostrano scettici, frettolosi e insensibili. Perfino con una bambina piccola.

Certo, lo ammetto, adesso lo sto dicendo anche per provocare una reazione e una riflessione. Lo so che il vero intento del film è un altro. Me ne rendo conto. E il finale consolatorio e miracoloso lo confermano. Ma nessuno mi toglie dalla bocca l’amarezza per quello che è successo prima. Prima che l’umanità si mostrasse anche nella sua forma migliore, prima che la diagnosi portasse la bambina ad essere da non creduta e non curata a malata con una “patente di diagnosi” e quindi indirizzata dal Medico Giusto buono, amorevole e, cosa non secondaria, competente.

Ma andiamo con ordine.

La storia – vera – è stata scritta da Christy Beam, mamma di Anna, bimba di dieci anni che soffre di un raro disturbo gastrointestinale che la sta portando in poco tempo alla morte e nel frattempo a una vita dipendente da farmaci ogni ora, e spesso presi a casaccio, alimentazione artificiale, debolezza e incapacità di svolgere anche le più semplici attività quotidiane. Il film, come dicevamo fedele trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico, è stato molto sottovalutato, ma trovo gli stia molto bene l’appellativo che gli ha dato certa critica di “artigianato di qualità” dovuto anche alla bravura degli attori, Jennifer Garner, la mamma tesa e combattiva, in testa. Dopo un calvario di pellegrinaggi e sofferenze durato anni, la famiglia Beam approda finalmente a Boston in una clinica dove la malattia rara di Anna viene riconosciuta e curata. A Boston mamma e figlia incontrano una serie di persone che con piccoli-grandi gesti concorrono a rendere più piacevole il loro soggiorno in città, più sopportabile il dolore fisico e animico, possibile il sollievo. Ci si riappacifica con l’umanità solo, quindi, nella seconda parte. Quando cioè Anna viene indirizzata verso Boston. 

La prima parte scatena francamente una rabbia sana. Sana perché è specchio della vita e, secondo me, se vogliamo cambiare le cose dobbiamo partir da qui. Da questo sentimento di rabbia che le ingiustizie devono ancora scatenare e che vorrei non smettessero mai di indignare. Perché finché l’umanità si indigna di fronte alla cattiveria e alla discriminazione allora c’è speranza. Quando non ci si stupisce più di nulla o, peggio ancora, come mi è stato detto da qualcuno di recente, “bisogna ammettere che il mondo fa schifo e quindi adattarsi per sopravvivere”, allora è la fine. E per me la vita non vale neppure la pena di essere vissuta. Ecco, questo il mio punto di vista, ma sto divagando ancora…

Nella prima parte, a girare le spalle alla famiglia Beam saranno perfino alcuni amici che frequentano assiduamente la chiesa. Diranno, infatti, che la malattia di Anna dipende, probabilmente, dai peccati compiuti dai genitori o dalla bambina stessa, precipitando così la madre in una spirale di rabbia e tristezza che la porterà a chiudersi e ad allontanarsi dalla religione, prima sua fonte di conforto, e dalla vita sociale. Molto bella è la denuncia finale del prete di tali, arbitrarie, interpretazioni. Molti di noi, di fronte a una malattia grave o a un periodo particolarmente buio della vita ci saremo sentiti dire cose simili da qualche “deficiente illuminato”: “Chissà cosa avrai fatto in questa o in un’altra vita per meritarti tutto questo”, io stessa mi sono sentita dire qualche volta… Apprendere che nel film, e quindi nella realtà, tali comportamenti discriminatori e ingiuriosi vengono apertamente condannati è una boccata di ossigeno. 

Il finale, dove il miracolo avviene e la piena guarigione di Anna è improvvisa e inspiegabile, non fa che alleggerire la trama e, francamente, il cuore. È bello pensare che qualche volta la medicina e la scienza possano ammettere di avere dei limiti, specie di fronte a diagnosi funeste, e che ci sia uno spazio di respiro dove la speranza resta intatta. Nella vita come nel film. 

È la religione a salvare Anna, e con lei tutta la famiglia Beam, che quando un membro si ammala di una malattia grave, cronica e invalidante, è tutta la famiglia ad ammalarsi con lui, a ben vedere. È la speranza in un’umanità migliore a fare la differenza forse e, in ultima istanza, la scoperta che, per fortuna, per ogni deficiente che esiste al mondo, spesso c’è almeno una persona di cuore che non giudica ed è pronta ad aiutare il prossimo. Con un piccolo, piccolissimo gesto, magari, che però può fare la differenza. Per Anna come per tutti noi.  

Il significato del Natale allora dovrebbe essere questo: che ogni giorno, per chi crede, anche solo nella possibilità di un mondo migliore, dovrebbe essere Natale, e la bontà e la gentilezza non dovrebbero mai andare fuori moda. Al contrario, sono merce sempre più rara e preziosa. Ma irrinunciabile.

Greta

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