Perché, perché non l’ho capito? O meglio: perché il libro Il colibrì non mi ha presa di pancia ma è entrato solo nella testa, come quei rari libri belli ma “destinati a cadere nel dimenticatoio”?
I motivi girano intorno a un’unica parola: troppo!
- Troppi salti temporali.
- Troppo slegato, pieno zeppo di capitoli a se stanti sfilati dalla trama principale.
- Troppe disgrazie (quasi elencate con autocompiacimento, quasi…)
- Troppo lento il ritmo.
- Troppo, troppo fermo Marco, il protagonista, (nonostante questo sia l’intento esatto dello scrittore), specie nella relazione-non relazione quasi solo platonica ed epistolare trascinata tutta la vita dal protagonista con Luisa, che mi lascia dentro il nulla.
- Troppi riferimenti eruditi, citazioni dentro le citazioni, materiali dotti e selettivi. Perfetti per vincere premi, un po’ meno per coinvolgere il lettore e, soprattutto, per non lasciar fuori una parte delle utenze.
Per contro, il libro gode sempre e comunque della magnifica scrittura di Sandro Veronesi!
È che ho amato talmente tanto altri suoi libri, La forza del passato per primo, e poi Caos calmo, del 2016, l’altro suo Premio Strega, che proprio non mi capacito di non essermi fatta travolgere da quest’ultimo libro che l’ha consacrato definitivamente nell’Olimpo degli autori destinati a restare nella storia.
In un viaggio continuo avanti e indietro nel tempo, la storia si dipana e si sgrana volutamente a fatica, intorno alla straordinaria capacità del protagonista di “restare fermo come un colibrì” mentre tutto intorno a lui va a pezzi, per ricongiungersi e assumere il vero significato intrinseco della vita, soprattutto del dottor Marco Carrera, medico oculista, solo verso la fine. Fermo, dicevamo, ma non inerte. Fermo perché convinto a non mostrare il fianco alle continue avversità ma deciso a lottare con la forza della resistenza allo sfacelo del suo matrimonio, del suo nucleo familiare, delle disgrazie che lo travolgono. Piccolo ma fortissimo, proprio lui che per una forma di nanismo ha visto accendersi le prime liti tra i genitori. La decisione finale, in tal senso, viene presa dal padre, e per fortuna, perché Marco potrà fare una cura sperimentale che lo porterà gradatamente a un’altezza e a un peso normali.
Comunque sia, Marco è stato, per buona parte della sua vita piccolo ed esile, ma la sua forza ce lo farà spesso dimenticare. Una forza che mi viene da dire che, quasi sicuramente, se fosse rimasto piccino avrebbe avuto ugualmente. Una forza che è pura Resilienza, questa parola così di moda, così abusata, eppure così irrinunciabile quando si tratta di questo libro. Perché questo è il libro della Resilienza di un uomo buono che la vita mette alla prova in tutti i sensi per poi regalargli un po’di dolcezza e Amore Puro solo sul finale. Quando per lui non c’è più nulla da fare. Naturalmente. Purtroppo. E mentre mi chiedo perché non si poteva risparmiare almeno lui, Marco, dalla generale ecatombe, oltre alla straordinaria e talentuosa quanto buona nipotina meticcia Miraijin, ovvero, “Uomo nuovo”, che gli ha lasciato la figlia prima di morire prematuramente (anche lei!). Marco trova perciò uno scopo per la sua vita, una missione addirittura, nell’allevare quella sorta di figlia benedetta nel migliore dei modi, senza pretendere che diventi “niente di più di quello che è” perché in questo proprio sta il vero miracolo, quello che è Miraijin e non tutto quello che potrebbe fare; pressoché tutto davvero. La nipotina gli restituirà finalmente parte di ciò che la vita gli ha strappato, ma è pur sempre l’unica parente sopravvissuta… e il momento clou del loro rapporto è quando lei lo aiuta a morire per poter fine alle sue sofferenze di malato oncologico. Cerco allora parallelamente spiegazioni nella critica, nella trama letta da altri, senza trovarle.
Allora mi arrendo. I libri sono così come gli incontri tra persone: non sempre scatta il colpo di fulmine o la comprensione immediata. Eppure, chissà, è pur vero che certi amori “fanno dei giri immensi e poi ritornano”, come dice una famosa canzone di Venditti, tant’è che quando ci penso, trovo che, a onor del vero, i capitoli più straordinari siano, per qualche motivo che però mi sfugge, quelli in cui scrive al refrattario fratello Giacomo elencando i lasciti dei genitori. Specie la collezione dei libri del padre, è un dettagliato trionfo di nostalgia e amore vero per la lettura che cela, e neanche troppo, un amore grande per il padre, e c’è la pancia dietro a quello che sembra a prima vista una banale lista. E allora mi dico che forse lo rileggerò, questo romanzo. Magari mi servirà un’altra età per imparare ad amarlo, un altro momento della vita in cui mi diano meno fastidio le citazioni copiose, un momento in cui, magari, riesco ad accettare io per prima di aver perso un numero spropositato di familiari e parenti cari e possa fare la pace con la vita. E magari allora, solo allora, oltre che tra me e Sandro Veronesi, scatterà davvero l’amore anche tra me e Il colibrì.
Chissà!
E voi? Avete letto Il colibrì? Che ne pensate, trovate che meriti lo straordinario successo che ha avuto?
Un abbraccio forte ma fermo, Greta
Condivido in pieno la tua recensione.
Aggiungo che le troppe citazioni fanno sembrare tutto il libro un mero esercizio di scrittura.
Ciao
Linda
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Mero esercizio magari è un po’ forte, però grazie di aver commentato e sono felice di averti fatta riflettere. I nostri articoli dovrebbero servire anche a questo.
A presto e un abbraccio, Greta
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Ho appena iniziato. Stile scrittura ineccepibile. La storia parte bene, poi ti saprò dire.
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Grazie, ci tengo ad avere altri pareri. Stimo moltissimo Veronesi e temo di non aver capito bene Il colibrì.
A presto, dunque, e grazie ancora,
Greta
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Ciao, non so come ti chiami (nome o tag non importa) ma dato che ci tenevi al mio parere, ed avendo terminato il libro, posso dirti che mi è piaciuto. Scrittura come già detto (per i narratori italiani contemporanei, specie se nati dopo il 1976 non è scontato). La storia ha mio avviso entra appieno sia nel personaggio principale, sia in quelli che con lui si interfacciano. Vi sono emozioni senza essere melodrammatici, la storia è romanzata, eccessiva nei drammi, ma oggettivamente ho conosciuto persone che hanno vissuto tutte queste tragedie. E’ una storia prettamente maschile, in cui immagino, come donna, sia difficile riconoscersi.
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Caro Fritz, non credo che ci siano storie scritte solo per uomini o donne, però terrò conto del tuo punto di vista per una seconda lettura. Per quanto riguarda la scrittura, niente da dire. Magistrale!
Grazie per aver risposto,
Greta
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Buongiorno Greta, molto contento di conoscere il tuo nome. Scusa per l’orrore grammaticale del commento precedente, ma vivo da molti anni all’estero e oramai mi accorgo di come sia difficile scrivere correttamente nella propria lingua e parlarne un’altra quasi 16 ore al giorno. Premetto, non intendevo dire che un libro sia scritto per uomini invece che per donne (o viceversa), cosa che nel mondo del politicamente corretto attuale sarebbe persino di moda dire dato che al fine di rimuovere barriere, non si fa altro che creare categorie da preservare per un fine o per un altro. Volevo dire che i modi di vivere e rielaborare i lutti e le tragedie di Marco Carrera, sono ovviamente suoi, personali, individuali, (è molto probabile che in essi ci sia molto di Veronesi o di persone che lui ha conosciuto) ma con un humus molto riscontrabile tra gli uomini. Cio’ detto è un libro che si rivolge ad un pubblico variegato ed omogeneo ed il più ampio possibile. Non credo fosse intenzione di GV scrivere un libro per soli uomini e ci mancherebbe altro. Un caro saluto. Fritz.
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