Il colibrì

Perché non l’ho capito? O meglio: perché Il colibrì, pur essendo un libro straordinario, non mi ha presa di pancia, non mi è entrato nel profondo ma si è limitato solo a sfiorare la mente, come quei rari libri belli ma “destinati a cadere nel dimenticatoio”?

I motivi girano intorno a un’unica parola: troppo!

  1. Troppi salti temporali.
  2. Troppo slegato, pieno zeppo di capitoli a se stanti sfilati dalla trama principale.
  3. Troppe disgrazie (quasi elencate con autocompiacimento, quasi…)
  4. Troppo lento il ritmo.
  5. Troppo, troppo fermo Marco, il protagonista – nonostante questo sia l’intento esatto dello scrittore – specie nella relazione amorosa, quasi solo platonica ed epistolare, trascinata per tutta la vita dal protagonista con Luisa Lattes, una donna italo-francese, che mi ha lasciato molto poco.
  6. Troppi riferimenti eruditi, citazioni dentro le citazioni, materiali dotti e selettivi. Perfetti per vincere premi, un po’ meno per coinvolgere il lettore e che, soprattutto,
    tagliano fuori una parte delle utenze.

Per contro, il libro gode sempre e comunque della magnifica scrittura di Sandro Veronesi!

In realtà, ho amato talmente tanto altri libri di Veronesi, La forza del passato per primo, e poi Caos calmo, l’altro suo Premio Strega del 2006, che proprio non mi capacito di non essermi fatta travolgere da quest’ultimo libro che ha consacrato Veronesi definitivamente nell’Olimpo degli autori destinati a restare nella storia, anche grazie al nuovo Premio Strega che ha vinto nel 2020.

La storia segue da vicino la vita di Marco Carrera, un medico oculista, attraverso una narrazione non lineare, che si sviluppa in un continuo allenarsi di momenti passati e presenti. La trama si dipana e si sgrana, volutamente a fatica e in modo frammentario, intorno alla straordinaria capacità del protagonista di “restare fermo come un colibrì” mentre tutto il mondo intorno a lui va in pezzi. Fermo, ma non inerte. Fermo perché determinato a non lasciarsi sopraffare dalle continue avversità, e deciso a lottare con tutta la forza della sua resistenza contro lo sfacelo del suo matrimonio e del suo nucleo familiare. Marco, piccolo ma fortissimo, ha affrontato una difficile infanzia segnata da una forma di nanismo che ha innescato le prime liti tra i suoi genitori. Fortunatamente, ha finito per prevalere l’opinione del padre, che ha insistito affinché Marco seguisse una cura sperimentale, a cui la madre era contraria, che lo porterà gradatamente a un’altezza e a un peso nella norma. 

Marco è stato piccolo ed esile per buona parte della sua vita, ma la sua forza ce lo farà spesso dimenticare. Una forza che, sono convinta, avrebbe avuto ugualmente anche se fosse rimasto piccino. Una forza che è pura Resilienza, una parola così di moda, così abusata, eppure così irrinunciabile quando si tratta di questo romanzo. Perché questo è il libro della Resilienza di un uomo buono che la vita mette alla prova in tutti i modi per poi regalargli un po’di tregua e Amore Puro solo nel finale. Quando per lui non c’è più nulla da fare, naturalmente e purtroppo. E così mi chiedo perché non si poteva risparmiare almeno lui, Marco, dalla generale ecatombe. Per fortuna, l’uomo riesce a ritrovare un po’ di pace e di tenerezza grazie alla straordinaria, e talentuosa nipotina meticcia Miraijin (ovvero: “Uomo nuovo”), che gli ha lasciato la figlia prima di morire prematuramente (anche lei!). Marco trova perciò uno scopo per la sua vita, una missione addirittura: crescere la bambina nel migliore dei modi, senza pretendere che diventi “niente di più di quello che è”, perché il vero miracolo sta proprio in quello che Miraijin è di per sé, e non in tutto quello che potrebbe potenzialmente fare. La nipotina gli restituirà finalmente consolazione e parte di ciò che la vita gli ha strappato, ma è pur sempre l’unica parente sopravvissuta… E il momento culminante del loro rapporto è proprio quando lei lo aiuta a morire per porre fine alle sue sofferenze di malato oncologico.

Cerco parallelamente spiegazioni di tante catastrofi, infilate tutte insieme nel libro, nella critica, nella trama interpretata da altri, senza trovarle.

Allora mi arrendo. I libri sono così come gli incontri tra persone: non sempre scatta il colpo di fulmine o la comprensione immediata. Eppure, chissà, è pur vero che certi amori “fanno dei giri immensi e poi ritornano”, come dice una famosa canzone di Venditti, tant’è che, quando ci penso, trovo che, a onor del vero, i capitoli più straordinari siano quelli in cui Marco scrive al  refrattario fratello Giacomo, elencando i lasciti dei genitori. Soprattutto la lista della collezione dei libri del padre è un dettagliato trionfo di nostalgia e amore vero per la lettura che cela, e neanche troppo, un affetto grande per il genitore; c’è la pancia dietro a quelli che sembrano a prima vista solo banali elenchi. E allora mi dico che forse lo rileggerò, questo romanzo. Magari mi servirà un’altra età per imparare ad amarlo, un altro momento della vita in cui mi diano meno fastidio le citazioni copiose, un momento in cui, magari, sia in grado di accettare io per prima di aver perso un buona parte di familiari e parenti. E magari allora, solo allora, oltre che tra me e Sandro Veronesi, scatterà davvero l’amore anche tra me e Il colibrì.

Chissà!

PS. Nel 2022, il romanzo è stato trasformato in modo efficace in un film diretto da Francesca Archibugi e interpretato da Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista.

E voi? Avete letto Il colibrì? Che ne pensate, trovate che meriti lo straordinario successo che ha avuto? E avete visto il film? Se sì avete preferito il libro o la trasposizione cinematografica?

Un abbraccio forte ma fermo, Greta

7 pensieri riguardo “Il colibrì

      1. Ciao, non so come ti chiami (nome o tag non importa) ma dato che ci tenevi al mio parere, ed avendo terminato il libro, posso dirti che mi è piaciuto. Scrittura come già detto (per i narratori italiani contemporanei, specie se nati dopo il 1976 non è scontato). La storia ha mio avviso entra appieno sia nel personaggio principale, sia in quelli che con lui si interfacciano. Vi sono emozioni senza essere melodrammatici, la storia è romanzata, eccessiva nei drammi, ma oggettivamente ho conosciuto persone che hanno vissuto tutte queste tragedie. E’ una storia prettamente maschile, in cui immagino, come donna, sia difficile riconoscersi.

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      2. Caro Fritz, non credo che ci siano storie scritte solo per uomini o donne, però terrò conto del tuo punto di vista per una seconda lettura. Per quanto riguarda la scrittura, niente da dire. Magistrale!
        Grazie per aver risposto,
        Greta

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      3. Buongiorno Greta, molto contento di conoscere il tuo nome. Scusa per l’orrore grammaticale del commento precedente, ma vivo da molti anni all’estero e oramai mi accorgo di come sia difficile scrivere correttamente nella propria lingua e parlarne un’altra quasi 16 ore al giorno. Premetto, non intendevo dire che un libro sia scritto per uomini invece che per donne (o viceversa), cosa che nel mondo del politicamente corretto attuale sarebbe persino di moda dire dato che al fine di rimuovere barriere, non si fa altro che creare categorie da preservare per un fine o per un altro. Volevo dire che i modi di vivere e rielaborare i lutti e le tragedie di Marco Carrera, sono ovviamente suoi, personali, individuali, (è molto probabile che in essi ci sia molto di Veronesi o di persone che lui ha conosciuto) ma con un humus molto riscontrabile tra gli uomini. Cio’ detto è un libro che si rivolge ad un pubblico variegato ed omogeneo ed il più ampio possibile. Non credo fosse intenzione di GV scrivere un libro per soli uomini e ci mancherebbe altro. Un caro saluto. Fritz.

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